martedì 9 ottobre 2012

Sono Homer, il fratello cieco.

"Homer & Langley" è uno di quei libri che ti accorgi di quanto siano belli solo quando li hai finiti.  Forse se la penso così è solo per il mio particolare interesse nelle malattie mentali anche se, nel libro, la parola "malattia" non è neppure menzionata.  A New York il caso di questi due fratelli, che accumularono nella loro casa ad Harlem quantità incalcolabili di ciarpame fece così tanto scalpore allora (nel 1947) per la sua assurdità totale che il termine tecnico per indicare quel fenomeno, "disposofobia", venne ribattezzato "sindrome di Collyer". L'autore, E.L. Doctorow ha ripreso -romanzandola e traslandola nel tempo- la loro storia, a sessant'anni di distanza, concedendosi una serie di licenze e raccontandola dal punto di vista di Homer, il fratello che prima diventò cieco e poi - come se non bastasse - sordo. Il grado di follia dei due fratelli, ma in particolare di Langley, viene descritto dall'autore come se fossimo parte della sua mente, lì con lui, a montare una Ford nella sala da pranzo o a progettare una dieta a base di erbe e noci tritate in grado di curare la cecità del fratello; i Collyer se ne stanno sempre ficcati in casa e diventano leggenda, ma nella misura in cui diventano bersaglio delle sassate dei ragazzini.  Il livello di degenerazione mentale è progressivo lungo tutto il romanzo, eppure ci si entra dentro mani e piedi, barricati insieme a loro in quella sorta di rifugio dal mondo esterno, condividendo le loro ansie, le loro gioie, i problemi di Homer e  - grazie alle sue descrizioni accurate - immaginandosi ogni singola stanza, un sorta di labirinto pieno di oggetti: dai pianoforti alle radio, dalle tv ai gatti che dormono, dai vestiti militari alle pentole ai pacchi di giornali. Il libro è bello, molto bello (l'avevo già detto?).
La loro (vera) storia è qui, se avete voglia di leggerla. 

Vorrei ringraziare in particolare Giorgio, che essendo partito per quel paese dove ci sono tante biciclette, canali e coffee shop mi ha lasciato in custodia una piccola biblioteca.

domenica 7 ottobre 2012

Meanwhile, campagna elettorale negli Stati Uniti

Dall'altra parte dell'oceano stanno messi così:


Let's get CRITICAL

Non é mica facile come sembra viaggiare in bicicletta ed evitare di farsi investire dai quei tamarri col fischio che sbucano da ogni lato per sorpassarti in velocità sulla discesa del ponte per andare in Bovisa. Provateci voi. Non è una minaccia, è un invito. Aldilà dei lividi sulle gambe l'appuntamento della Critical Mass milanese ogni Giovedì sera è un'esperienza da vivere, almeno una volta.
C'è uno con lo stereo, il tizio con il cane nel risciò, la ragazza col megafono che grida "butta-la, butta-la!" agli automobilisti, c'è il pirata che registra video mentre usa un longboard, quello - che io conosco - con mille girandole colorate, i tamarri che fanno le evoluzioni con le BMX, una saltafoss truzzissima  - che inevitabilmente colpisce i ciclisti più nostalgici -, ed una serie infinita di cappelli bizzarri (da marinaio, da cowboy, da tortadicompleannofrancese - quella ero io -, da vaso di fiori - altra conoscenza -, con l'elica bicolore che gira o, molto più sobrio,  con un paio di corna da vichingo).
La Critical Mass è qualcosa a cui voler bene, perché è un momento un po' diverso e non fa male a nessuno: prendi la tua bicicletta, esci da casa e ti fai un giro con un sacco di gente che, come te, per una sera ha deciso di uscire a divertirsi. Sotto c'è tutta una storia, lunga e molto interessante, e lo scopo principale è quello di fare, appunto, massa critica, in una azione di protesta collettiva contro l'inquinamento delle città causato dall'uso sconsiderato dell'automobile. Per una notte la massa si muove compatta per il traffico cittadino, permettendosi di ignorare bellamente il colore dei semafori e le comuni norme dell'educazione per insultare - in modo più o meno scherzoso - i guidatori, ma in una maniera tale e con un atteggiamento che non ha nulla a che fare con l'accanimento puro e immotivato ma piuttosto per preservare quel principio di fondo che anima tutta la Critical Mass.
cit. "Viva la biga!"

(a 1:04 spuntiamo io e i miei amichetti)

Made in China

Io non li ho mai provati, i biscotti della fortuna.
Forse un po' perché non sono così popolari in Italia, ma anche per l'aspetto che - forse tradisce - non li rende particolarmente appetitosi.
Eppure sono un mito, e magari esagero a volerli addirittura definire un'icona moderna (grazie ai film e alle serie americane) come - dal punto di vista culinario - lo sono anche gli hot dog, gli hamburger e i milkshake, che fino a qualche decennio fa erano solo parte del mondo di Happy Days, in quell' universo del tutto sconosciuto reso famoso tramite le trasmissioni in tv.
Il pensiero comune veicolato dai programmi televisivi vuole che i biscotti della fortuna siano un prodotto tipico della cultura cinese. E invece sticazzi.
Come viene spiegato in modo esauriente qui, i fortune cookies sono - molto probabilmente - nati in California, creati da un giapponese in maniera molto similare al senbei, un cracker tradizionale: il primo cenno storico risale a Makoto Hagiwara che servì una rivisitazione del biscotto al Golden Gate Park di San Francisco all'incirca verso il 1890. Solo durante il periodo della seconda guerra mondiali la produzione di questi dolci sarebbe passata al monopolio cinese, visti i rapporti non particolarmente amichevoli tra Stati Uniti e Giappone, che non avrebbe poi più rivendicato l'introduzione del dessert nel paese.
E in Cina non ci sono nemmeno, o meglio: esistono, ma vengono venduti solo ai turisti. I biscotti della fortuna sono un prodotto creato dai giapponesi, tipicamente americano, che gli americani credono tipicamente cinese.